Aldous Huxley scrittore inglese e la gita al mistico Montesenario

Aldous Huxley (Godalming, Surrey, 1894 - Hollywood 1963) appartenne ad una altolocata famiglia inglese di scrittori, politici e scienziati. Pubblicò saggi, libri di viaggio, novelle e romanzi alcuni di raffinata satira: Giallo cromo (1921), Passo di danza (1923), Foglie secche (1925) entrambi ambientati in Italia, dove soggiornò dal 1923 al 1930. “Diviso tra un idealismo mistico e un razionalismo scientifico – così la Treccani –, affrontò tematiche più complesse” in Punto contro punto (1928), considerato il suo capolavoro, e in La catena del passato (1936). In Il mondo nuovo (1923) scrisse di un futuro mondo meccanizzato in visione satirica e meditò sul “difficile futuro della civiltà europea negli amari” Dopo molte estati (1940) e La scimmia e l’essenza (1949).
Infine nei romanzi L’eminenza grigia (1941) e I diavoli di Loudun (1952), ambientati nella Francia del seicento, analizzò il significato di religione, superstizione e misticismo nella relazione tra fede e società ed espresse la condanna dell’attività politica e della ragion di Stato del XX secolo.

Pur non essendo cattolico e vivendo nell’indifferenza religiosa familiare (il nonno Thomas coniò la parola agnostico nel 1869), Huxley apprezzò e dedicò un bel racconto al convento di Montesenario in Essays new and old (Saggi nuovi e vecchi).

Il testo tradotto qui di seguito appartiene all’edizione di New York nel 1927 (pp. 132-137).

“Era marzo e la neve si stava sciogliendo. Mezza invernale, mezza primaverile, la montagna appariva a chiazze, come un cane spelacchiato. I pendii a sud erano spogli; ma in ogni cavità, sul lato senza sole di ogni albero, la neve giaceva ancora, bianca sotto le ombre azzurre e trasparenti. Attraversammo un piccolo bosco di pini; la luce del sole pomeridiano che filtrava attraverso il fogliame scuro illuminava qui un ramo, là un tronco, trasformando la corteccia rossastra in una specie di corallo dorato. Oltre il bosco, la collina era spoglia fino alla cima. Sulla cresta, una massa di edifici levava le sue alte mura illuminate dal sole contro il cielo pallido, una gelida piccola Nuova Gerusalemme. Era il monastero di Montesenario. Ci arrampicammo verso di esso, faticosamente; perché l’ultima tappa del cammino del pellegrino da Firenze a Montesenario è insolitamente ripida e bisognava lasciare l’automobile. E improvvisamente, come per darci il benvenuto, come per incoraggiare i nostri sforzi, la città celeste riversò una schiera di angeli. Svoltando un angolo del sentiero, li vedemmo venirci incontro, a due a due in una lunga fila; angeli in tonaca nera con cappelli neri rotondi in testa: un seminario che si prendeva una pausa pomeridiana. Erano ragazzini, i più grandi sedici o diciassette, i più piccoli non più di dieci. Camminavano svolazzando nelle loro gonne nere con un decoro innaturale. Era difficile credere, quando si vedevano i piccoli in testa al coccodrillo [intende la fila], con l’alto padre responsabile che camminava a grandi passi al loro fianco, che non fossero mascherati. Sembrava un’opera di irriverente divertimento: una caricatura di Goya che prendeva vita. Ma i loro volti erano seri; paffuti o adolescenziali, avevano già un’espressione untuosamente clericale. Non era uno scherzo. Guardando quei bambini in tonaca nera, si desiderava che lo fosse stato.
Salimmo; i piccoli preti scesero e scomparvero alla vista. E finalmente eravamo alle porte della città celeste. Una piccola piattaforma pavimentata e con parapetto fungeva da pianerottolo per la scalinata che conduceva al cuore del convento. Al centro della piattaforma si ergeva una statua a grandezza naturale di un santo sconosciuto. Era un’opera di barocco settecentesco comicamente mirabile. Scolpita con rozza brillantezza, la creatura gesticolava estaticamente, roteando gli occhi al cielo; le sue vesti svolazzavano intorno a lei in ampie pieghe. Non era, in un certo senso, il tipo di santo che ci si aspettava di vedere in piedi a guardia dell’eremitaggio più tetro della Toscana. E il convento stesso, anche quello sembrava incongruo sulla cima di questa montagna ghiacciata. La città celeste era un bell’edificio del primo barocco con rifiniture e aggiunte settecentesche. La chiesa era piena di intagli dorati e dipinti terribilmente competenti. I resti dei sette pii fiorentini che, nel XIII secolo, fuggirono dalla città della distruzione nella pianura sottostante e fondarono questo eremo sulla montagna, erano custoditi in una grande urna d’oro e di cristallo, illuminata, come una vetrina nel salotto di un collezionista di porcellane, da luci elettriche nascoste. No, gli edifici erano ridicoli. Ma dopotutto, cosa importano gli edifici? Un uomo può dipingere bei quadri in una baraccopoli, può scrivere poesie a Wigan [città della contea Grande Manchester]; e viceversa può vivere in una casa squisita, circondato da capolavori d’arte antica, e tuttavia (come si vede quasi invariabilmente quando i collezionisti di antiquariato, affidandosi per una volta al proprio giudizio, e non alla tradizione, ‘si dedicano’ all’arte moderna) essere grossolanamente insensibili e completamente privi di gusto. Entro certi limiti, l’ambiente conta ben poco. È solo quando l’ambiente è estremamente sfavorevole che può distruggere o distorcere i poteri della mente. E per quanto favorevole, non può fare nulla per estendere i limiti posti dalla natura alle capacità dell’uomo. Quindi qui l’architettura sembrava incredibilmente incongrua con il luogo cupo, con la nozione stessa di eremo; ma gli eremiti che vivono in mezzo ad esso probabilmente non sono consapevoli della sua esistenza. All’ombra dell’assurda statua di San Filippo Benizi, un Buddha sarebbe stato in grado di pensare in modo altrettanto buddhista quanto sotto l’albero della Bodhi [fico sacro].
Nel parco del monastero vedemmo una mezza dozzina di Serviti in tonaca nera che segavano la legna – segavano con vigore e umiltà, nonostante la doratura artificiosa della chiesa e del campanile settecentesco. Sembravano autentici. E la vista dalla seconda cima della montagna era nella più grandiosa tradizione eremitica. Le colline si estendevano a perdita d’occhio nella foschia invernale, come un vasto mare mosso congelato all’immobilità.
Le valli erano pervase da un’ombra azzurra e tutti i pendii esposti al sole erano color oro ruggine. Ai nostri piedi il terreno si perdeva in un immenso abisso blu. L’aria vaporosa addolciva ogni contorno, smussava ogni dettaglio, lasciando solo luci dorate e ombre violacee fluttuanti come l’essenza disincarnata di un paesaggio, sotto il cielo pallido.
Rimanemmo a lungo a guardare quel regno di silenzio e di solenne bellezza. La solitudine era profonda quanto l’abisso ombroso sotto di noi; si estendeva fino agli orizzonti nebbiosi e fino al cielo sconfinato. Qui, nel cuore di essa, pensai, un uomo potrebbe iniziare a comprendere qualcosa di quella parte del suo essere che non si rivela nel commercio quotidiano della vita; che i contatti sociali non traggono, come una scintilla, dalla selce addormentata che è uno spirito inesperto; quella parte di lui della cui stessa esistenza è reso consapevole solo nella solitudine e nel silenzio. E se nella sua vita non c’è silenzio, se non è mai solitario, allora potrebbe scendere nella tomba senza sapere nulla della sua esistenza, tanto meno comprenderne la natura o realizzare le sue potenzialità.
Ritornammo sui nostri passi fino al monastero e da lì scendemmo lungo il ripido sentiero fino all’automobile. Un miglio più avanti, lungo la strada verso Pratolino, incontrammo i religiosi che tornavano dalla loro passeggiata. Poveri bambini! Ma la loro sorte era forse peggiore, mi chiedevo, di quella degli abitanti della città nella valle? Sulla cima della loro montagna vivevano sotto una regola tirannica, veniva loro insegnato a credere in una serie di cose palesemente sciocche. Ma la regola era forse più tirannica di quella delle imbecilli convenzioni che controllano la vita degli esseri sociali nella pianura? Lo snobismo riguardo a duchesse e illustri romanzieri era forse più ragionevole dello snobismo riguardo a Gesù Cristo e ai Santi? Lavorare duro per la maggior gloria di Dio era forse più detestabile di otto ore al giorno in un ufficio per il maggior arricchimento degli ebrei? La temperanza era una noia, senza dubbio; ma era forse così disgustosamente faticoso come l’eccesso? E il dispendio di spirito in preghiera e meditazione, era forse meno divertente del dispendio di spirito in uno spreco di vergogna? Guidando verso la città in pianura, mi interrogavo. E quando, in Via Tornabuoni, incontrammo la signora Vattelapesca [in inglese Thingummy], nell’atto di infilarsi faticosamente sul marciapiede attraverso la portiera della sua gigantesca limousine, capii improvvisamente e perfettamente cosa avesse spinto quei sette ricchi mercanti fiorentini, settecento anni prima, ad abbandonare la loro posizione nel mondo e a salire nell’alta natura selavaggia, a vivere in grotte in cima a Montesenario. Mi voltai indietro; la signora Vattelapesca stava camminando dondolando sul marciapiede verso la gioielleria. Sì, capii perfettamente”.

Tradotto da Paola Ircani Menichini, 10 ottobre 2025. Tutti i diritti riservati.




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